Babij Jar, di Anatolij Kuznecov [Adelphi, 2019]

La storia – documento, come ricordato nel sottotitolo, è presentata come la vera testimonianza di quello che è successo in quei giorni per opera delle truppe naziste, ma anche negli anni successivi quando l’ex URSS ed il Partito Comunista Sovietico hanno cercato di insabbiare tutto, soprattutto la vergogna di non essere stati capaci di difendere i propri confini di fronte all’avanzata tedesca, ma anche la loro complicità in quell’operazione sistematica di annientamento umano.

Babij Jar [Adelphi 2019], di Anatolij Kucnecov

Questo tema, della reticenza bolscevica, è forte nel risentimento dell’autore tanto da far diventare una storia nella storia quella delle peripezie editoriali. Il romanzo, scritto nel 1966 anche su impulso di un verso di Evgenj Evtušenko (“Non ci sono monumenti a Babij Jar./ C’è un dirupo scosceso, come rozza pietra tombale./ E io che tremo”) che proprio Kucnecov accompagnò in quelle terre, è un monumento alla memoria di quei continui tentativi negazionisti. Il testo fu presentato nel 1965 da Kuznecov alla rivista “Yunost”, ma fu pubblicato fortemente rimaneggiato e ridotto dalla mannaia di una pesante censura. Finalmente nel 1969 Kucnecov riuscì a sottrarsi al controllo sovietico rifugiandosi in Inghilterra: raggiunse Londra scortato da un agente del KGB, al quale sfuggì (insieme con un microfilm del manoscritto originale del romanzo, perché dell’originale aveva perso ogni traccia) con la scusa di un incontro con una prostituta. In realtà contattò il “Daily Telegraph” e riuscì ad ottenere asilo politico in Gran Bretagna: a quel punto poté recuperare il testo e rendere pubblica la grande strage dei nazisti e l’incapacità (e complicità) dell’Armata Rossa. Soltanto in una nuova patria poté dare alle stampe la versione completa del romanzo-documento arricchita di circa 300 pagine (su 450) rispetto all’edizione russa. Il Italia il libro comparve in una versione ridotta soltanto nel 1970: il grande pregio di questa edizione Adelphi sta nel restituire, anche attraverso espedienti grafici, la stratigrafia del testo presentato nella versione originale censurata con le aggiunte che a freddo, oramai in salvo, Kucnecov ritenne opportuno fare fra il 1967 ed il 1970. 33.371 furono gli uomini e le donne effettivamente sterminati e sotterrati a Babij Jar, a volte ancora vivi, in soli due giorni: e non furono soltanto ebrei, ma anche ucraini, zingari, comunisti ‘scomodi’. Kuznecov ci racconta tutti i particolari di quella negazione dell’uomo, la freddezza e l’insofferenza delle squadre tedesche costrette a lavorare a ritmi serrati per portare a termine gli ordini per quell’orrore; ma anche la paura e l’umiliazione degli uomini, denudati e svestiti della loro dignità, divenuti oramai cose. Kuznecov si sofferma – con una apparente distacco che non è altro che lo sgomento di chi si ritrova svuotato a dover raccontare quei fatti, per dovere etico – sul racconto di chi non è morto nelle fosse, ma ha perduto la sua umanità per sopravvivere. Va letto e meditato, nella sua prosa asciutta, priva di ogni commento superfluo se non quello di un superstite che si sente ormai un alieno al genere umano. Come scrive Katja Petrowskaja in Forse Esther : “Non c’era più nulla da mostrare, ma solo da raccontare”.


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