Intervista a Piernicola Silvis

Dopo (e durante) un’onorata carriera di funzionario dello Stato come poliziotto, questore, responsabile di diverse Squadre mobili, ha coltivato la carriera di scrittore con appassionanti romanzi di stringente attualità affidati al commissario Renzo Bruni. Con il suo nuovo romanzo muove i personaggi su sfondi storici del tutto nuovi, con nuovi temi che se anche apparentemente lontani nel tempo, toccano la sensibilità civile e civica di tutti i giorni. Approfondiamo direttamente con lui i motivi di questa interessante novità.

Dopo tante pagine su Renzo Bruni, poliziotto che comunque ha una vita privata tormentata, hai scelto come protagonista del tuo Storia di una figlia una donna, Anna. Pesava molto la figura di Renzo Bruni nella capacità poetica di Piernicola Silvis?
Più che sentire il peso di un personaggio seriale, un autore dotato di un minimo di creatività ama spaziare e affrontare tematiche diverse. Renzo Bruni, anche se non sono assolutamente io, in fondo è un collega, una sorta di mio alter ego e, dopo tre romanzi e circa 1350 pagine su di lui, sentivo il bisogno di affrontare altre questioni importanti quanto quelle del male che alberga negli assassini metropolitani. Inoltre sono uno studioso del nazismo, e prima o poi avrei voluto scriverne per capire come abbia fatto un paese come la Germania, faro di civiltà, a scatenare il più atroce crimine della storia dell’umanità. Ho scelto di farlo non dall’angolazione dell’olocausto ebraico, ma dal quasi sconosciuto olocausto di 15.000 donne, anziani e bambini massacrati e mutilati dalle SS nel 1944.

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Perché non siamo stati in grado di chiudere i conti con il fascismo e il nazismo? Perché non abbiamo avuto una nostra Norimberga? Solo colpa di zelanti funzionari di Stato?
È una delle tematiche portanti del romanzo. Sotto un profilo puramente tecnico, i processi sulle stragi nazifasciste del ’44 furono insabbiati non per una volontà negazionista o, peggio, complice, ma a causa del realismo politico-diplomatico che avvolse l’Europa del dopoguerra. Da un lato, la Germania era diventata l’anello di congiunzione fra l’Europa dell’Ovest e quella dell’Est, per cui Berlino era una pedina fondamentale nelle dinamiche della Cortina di ferro, e in quel momento i processi ai criminali nazisti avrebbero sconvolto questo filo diplomatico così importante e sottile (fra l’altro, molti ex nazisti si erano ben integrati nella nuova Germania). Perciò negli anni Sessanta gli USA e, forse, il Vaticano suggerirono all’Italia di evitare quei processi, così 695 fascicoli processuali sulle stragi finirono occultati in quello che, una volta scoperto negli anni ’90, fu definito da Franco Giustolisi “L’armadio della vergogna”. Dall’altro lato, c’era il timore che, se si fossero processati i criminali nazisti, noi avremmo dovuto processare i criminali italiani che si erano macchiati di crimini atroci sia nell’ex Jugoslavia sia nel nostro stesso paese. In sostanza, Norimberga c’era stata, i gerarchi nazisti erano stati giustiziati e si voleva in qualche modo “dimenticare” quelle tragedie per guardare avanti con positività. Naturalmente, questa rimozione tecnica portò anche a una rimozione storica, perché se negli anni Cinquanta e Sessanta non si parlava di Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema, figuriamoci se se ne sarebbe potuto parlare negli anni Ottanta e Novanta. Se poi vogliamo discutere di politica, è chiaro che, in democrazia, ognuno ha la sua idea, purché non alimenti odio e razzismo, come fece il nazismo.

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