Quando andare a lavorare significa andare in guerra

Il tragico episodio di Udine, la morte di un diciottenne durante un percorso PCTO (alternanza scuola-lavoro), parla direttamente sullo stato di salute, critica, del diritto all’istruzione e del diritto al lavoro.

La violenta scomparsa di Lorenzo, che non è un episodio isolato di studente-lavoratore morto durante un PCTO (peraltro per Lorenzo si trattava di uno stage di secondo livello tipico dei percorsi di CFP), non solo deve portare a riflettere sulle modalità di realizzazione del percorso didattico dell’alternanza scuola-lavoro, ma deve far profondamente rivedere le norme sulla sicurezza sui posti di lavoro perché ci sia effettiva tutela della salute di chi tutti i giorni esercita un suo diritto costituzionale.

Partiamo dal secondo problema con una lettura degli ultimi dati: nel 2020 i morti sul lavoro (dati Inail) sono stati 1.538; nel 2021 sono stati 1.404 (sempre dati Inail).

Un report dell’Inail aggiornato ad ottobre 2021 fornisce dei dati davvero preoccupanti:

1.017 – Denunce di incidente mortale sul lavoro registrate dall’Inail nei primi dieci mesi del 2021 (-1,8%)

448.110 – Denunce di infortunio registrate dall’Istituto tra gennaio e ottobre di quest’anno (+6,3%)

45.395 – Patologie di origine professionale denunciate nei primi dieci mesi dell’anno (+24% sul 2020)

Vuol dire che ci sono 3 morti al giorno, oltre 1.400 le denunce di infortunio ogni giorno, 151 denunce di patologie professionali al giorno!

(grafico sull’andamento degli incidenti sul lavoro, dal 2001 all’ottobre del 2021)

Un bollettino di guerra, anzi peggio, al quale si continua a non dare risposte coerenti, serie, concrete.

È in questo contesto, vergognoso, catastrofico e inaccettabile, che si deve realizzare un percorso di formazione in cui inserire gli alunni anche per 400 ore in tre anni?

E qui veniamo al primo punto.

L’alternanza scuola-lavoro, entrata nelle discussioni ordinamentali grazie alla Riforma Moratti (2003-2005) e resa obbligatoria anche per i Licei dalle disposizioni della Buona Scuola (2015), dovrebbe essere un percorso formativo didattico, non un tirocinio o stage come è stato dipinto realisticamente dalla stampa.

Alla denuncia di sfruttamento di lavoro a titolo gratuito, a vantaggio delle imprese, a quella legata all’inutilità pedagogica di alcuni percorsi didattici (perché ribadiamolo: questa deve essere l’alternanza scuola-lavoro, UN PERCORSO DIDATTICO, UN’ESPERIENZA SCOLASTICA! non l’avviamento al lavoro, o meglio allo sfruttamento), che però sono obbligatori per legge, si aggiunge un particolare a volte considerato secondario, ma di fatto determinante: l’obbligo, spessissimo inevaso, della formazione degli studenti-lavoratori a carico delle imprese che li ospitano.

Più volte le rappresentanze delle categorie datoriali hanno denunciato l’iniquità della riforma che fa ricadere sul loro bilancio la formazione sulla sicurezza degli studenti-lavoratori: la scuola si occupa con i fondi statali della formazione base (8 ore), ma l’azienda DEVE provvedere alla formazione specifica sulla sicurezza legata a quel determinato luogo di lavoro per lo studente ospitato come per un qualunque suo dipendente.

Ecco che quindi la possibilità di sfruttamento, ben gradita, diventa un costo per i poveri datori di lavoro, un costo che mina la loro produzione.

Questo porta in concreto a scegliere di fare o non fare la formazione in azienda magari in modo superficiale se non residuale, “tanto la sicurezza è inutile e comunque basta stare solo un po’ più attenti”.

Ora, in un contesto con 1.400 denunce di infortunio sul lavoro al GIORNO, possiamo pensare che la formazione sulla sicurezza come costo e non come diritto-dovere?

L’alternanza scuola-lavoro va immediatamente sospesa in tutta Italia, ripensata, sia in una prospettiva didattica [l’unica possibile] sia in una dimensione di responsabilità aziendale, messa in sicurezza e organizzata come possibilità (e non obbligo) per gli studenti e le studentesse.

Altrimenti si rischia di mandare gli studenti ad un massacro sicuro: 3 morti al giorno sul lavoro, non dimentichiamolo!

(Luana D’Orazio, di 22 anni, morta lo scorso anno per incidente sul lavoro)

Nel mezzo di questa ecatombe, le risposte, pur comparse nell’agenda dell’attuale ministro Orlando, sono davvero incomprensibili: non sono necessarie soltanto procedure di prevenzione, ma è fondamentale rimpolpare il corpo degli ispettori che controllino davvero se, come nel caso di Lorenzo, come nel caso di Luana D’Orazio (operaia di 22 anni), Laila el Harim (operaia di 40 anni), come nel caso dei due sessantenni morti a Torino ed a Pomezia nello stesso giorno in cui finiva la vita di Lorenzo, il datore di lavoro ha davvero fatto tutto per garantire la sicurezza delle sue lavoratrici e dei suoi lavoratori.

Non bastano multe quando una vita è spezzata sul lavoro: ci vogliono investimenti per intensificare e rendere efficaci i controlli, ci vogliono investimenti sulla formazione specifica sul posto di lavoro, sui dispositivi di prevenzione, sulla salute.

Ricordandoci che anche un solo morto sul lavoro è una tragica sconfitta per una società civile.

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