Ripensare il reclutamento degli insegnanti? è possibile

Enrico Galiano è scrittore, ma anche insegnante: caso non unico, sicuramente, che però si distingue da molti altri esperti di politiche scolastiche perché le sue analisi sono sempre molto centrate e pertinenti rispetto all’oggetto ed al contesto di riferimento, cioè la scuola.

Di recente ha pubblicato un articolo su illibraio.it (Per favore, possiamo cambiare il modo in cui reclutare gli insegnanti?) in cui presenta una breve analisi sui recenti concorsi, più volti a sondare le nozioni che le competenze degli aspiranti insegnati, ed ha presentato una interessante riflessione:

Già da prima lo sapevamo, ma due anni e mezzo di pandemia lo hanno reso lapalissiano, ormai: insegnare è soprattutto lavoro di relazione. Un buon insegnante non sarà mai chi ne sa di più, o chi sa fare bella figura davanti a una commissione, preparando lezioni fantasmagoriche: un buon insegnante lo devi vedere all’opera.

Come parla con Gurpreet. Come si rivolge ad Amina. Cosa fa per aiutare Sara, che a casa ha due libri di cui uno di ricette. In che modo sostiene Francesco, dislessico, che è convinto di essere stupido.

Insegnare è una cosa che si fa con le mani, con la testa, col cuore, con lo sguardo, con la voce, è essere attori, psicologi, divulgatori, architetti, comici spaventati guerrieri. Questo è.

Come fai a capire se una persona è adatta a questo mestiere delicatissimo, se non lo vedi interagire con bambine e bambini, con ragazze e ragazzi?

Al di là della retorica, si coglie un nodo ed una lacuna dell’attuale sistema di reclutamento: le attuali prove di selezione (spesso assurde perché basate su quesiti chiusi a pallini) sono tutte teoriche e solo successivamente si pensa alla pratica! Manca cioè nella selezione degli insegnanti una valutazione dell’interazione con la classe che viene effettuata soltanto dopo.
Qui si apre un problema ulteriore legato alla formazione in ingresso, al momento posticipata.

L’idea di individuare un momento nel percorso universitario di formazione teorica per gli interessati all’insegnamento -aggiuntivo rispetto al cammino per la laurea di cui non ne deve pregiudicare la completezza e coerenza– è sicuramente giusta: diversi percorsi di laurea non prevedono infatti nemmeno lontanamente un’infarinatura utile per il futuro docente di scuola. Certamente non deve essere una scelta opzionale rispetto ad un indirizzo di laurea, ma, come detto sopra, aggiuntiva.

L’idea di concretizzare quel percorso con un tirocinio via via più coinvolgente rispetto ad una prima osservazione, l’idea di far interagire da subito il futuro docente con gli alunni, con i genitori, con i consigli di classe è determinante. Non bastano le nozioni, bisogna saperle trasmettere.
Le prove concorsuali non possono essere basate solo sulle nozioni o sulla costruzione teorica di una lezione simulata: la lezione va fatta e bisogna osservare come il futuro insegnante la mette in atto. Questo renderebbe i quesiti delle varie commissioni molto più credibili ed attinenti con la realtà della scuola di oggi.
Si tratta di un compito di realtà, appunto, di un esperimento di laboratorio.
Per questo motivo bisogna subito agire per dare una risposta alle decine di migliaia di precari che il loro tirocinio lo hanno già fatto da diversi anni e, causa un sistema di reclutamento sbagliato perché non allineato con la realtà scolastica, sono oggi ancora docenti a tempo determinato: sbagliano quelli che, spinti dagli aloni magici della meritocrazia, ritengono questi docenti inadeguati. Inadeguato è oggi il sistema di reclutamento che mira a scandagliare le conoscenze e non valorizza invece il lavoro d’aula. Del resto se nessuno si è mai preso la briga di licenziare tutti questi precari o di considerarli incapaci di insegnare, ma anzi tutti gli anni sono in pista per svolgere con professionalità il loro lavoro, una parte del percorso di idoneità all’insegnamento l’hanno già svolto, rispetto a chi invece fresco di università ha più conoscenze, ma zero pratica.

Non sono d’accordo su un punto espresso da Galiano: l’insegnante non deve essere altro che un insegnante. Non deve essere psicologo, non deve essere attore, architetto e divulgatore. Questo non significa che deve mancare una componenate empatica.
Tuttavia la responsabilità della formazione dei futuri cittadini è una responsabilità diffusa che deve coinvolgere tutta la società civile, quindi non può essere scaricata solo su un pezzo della società stessa, anzi è necessario mettere il progetto educativo al centro e costruire armonicamente tutta la società intorno ad esso in maniera da poter consegnare agli studenti un’idea di società coerente, fatta di nozioni, conoscenze, competenze, ma anche valori (per intenderci: praticare una scuola inclusiva che supera le differenze di genere, religione e credo politico deve essere coerente con una società inclusiva, che non discrimina; spiegare Manzoni e Tolstoj, Dostoevski, Kafka e Pavese deve trovare riscontro in un concetto diverso di cultura di massa che non può essere quella dei volgarissimi talk show o dei vari Temptation Island e via discorrendo).

L’insegnante deve essere messo in condizione di poter svolgere il suo ruolo, civile e sociale, in una società che ne valorizzi la figura e soprattutto valorizzi la Scuola come luogo di crescita.


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