Intervista ad Andrea Marcolongo

Incontro Andrea Marcolongo in un pomeriggio piovoso romano, prima della presentazione del suo ultimo libro: seppure molto giovane, è preparata e brillante. Questa sua freschezza contrasta quasi con l’argomento dei suoi libri, una lingua antica, personaggi antichi, polverose ricostruzioni di gesta eroiche, della storia di una lingua e della storia delle parole. Eppure proprio da questo contrasto nasce qualcosa di meraviglioso, una continua ricerca di sé attraverso la stratificazione della lingua.

Ma l’etimologia è un passato: tu usi il termine fonte. È una radiografia. Quale futuro c’è allora per le parole?
Proust diceva che le parole sanguinano. Parto dalla costatazione che oggi le parole sono rotte, le parole sono ferite: il modo che ho trovato io di prendermene cura, sperando insieme ai lettori, è stato quello di tornare alle loro radici. Succede così quando si ha un problema e non si va più d’accordo con qualcuno: qual è la radice dei nostri problemi? Proviamo allora ad andare a monte, risolviamo i problemi da lì. Per me ripercorrere a ritroso la storia di una parola non significa infatti voltare le spalle al futuro, anzi io credo che l’origine sia la nostra meta. Svilupparne i cambiamenti.

Sono dell’idea che i cambiamenti siano inevitabili, soprattutto quando si parla di linguaggio; anzi, non ci sarebbe nulla di più controproducente che fissarne il significato. Fissare una parola sarebbe appunto come impedire al sangue di scorrere, non si possono fermare. Certo si può incanalare ed indirizzare il cambiamento, benché sia impossibile prevederne gli esiti, e non possiamo essere vittime del cambiamento. Oggi c’è l’abitudine di svendere ogni cambiamento come qualcosa di positivo, qualcosa di buono, ma è necessaria invece una visione, un’ideologia, un apparato filosofico che lo orienti. Diversamente sarebbe come un soffio di vento che gira le pagine.

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