L’acqua alta e i denti del lupo, di Emanuele Termini [Exòrma, 2019]

C’è un ospite inatteso sul cargo fra Ancona e Venezia, in quell’aprile 1907. A bordo infatti c’è un giovane anarchico russo, georgiano per l’esattezza, che è arrivato trafelato da Odessa e per alcuni mesi, con l’aiuto degli anarchici marchigiani ha fatto il portiere di notte in un hotel ad Ancona, ma adesso ha addirittura bisogno di incontrare Lenin, in esilio da anni anche se leader indiscusso del Partito Operaio Social-Democratico Russo (POSDR). Il giovane Koba, così è conosciuto a Gori ed in Georgia, anche se nessuno conosce il suo vero nome, sta sfuggendo al regime zarista.

Venezia è solo una tappa, dove potersi riposare e organizzare l’ultima parte del suo viaggio. Probabilmente trova riparo per qualche notte nel Monastero di San Lazzaro degli Armeni, ospite dei padri mecharisti di Venezia. Del resto nella sua vita vivere di nascosto è oramai un’abitudine: per organizzare le sue rapine e sovvenzionare la causa della rivoluzione popolare, un giorno è Koba, un altro è Soso. A Venezia ha fatto in tempo a farsi chiamare Bepi del Giasso. Perché non può lasciare tracce, non può dare nessun vantaggio ai suoi nemici, ai nemici del popolo. Anche se i suoi stessi amici non approvano i suoi metodi criminali, non approvano la violenza. Soltanto Lenin ha capito quanto può essere utile il suo apporto in questa fase di preparazione della rivoluzione del proletariato, per questo ha bisogno di parlargli da solo, per capire come collaborare nell’interesse del popolo russo. Non resta molto del suo soggiorno italiano, è quasi un’ombra che sfugge veloce per recarsi all’appuntamento con il suo destino. Da lì a qualche anno rientrerà in patria dove al suo nome, Josif Džugašvili, sarà associato un soprannome divenuto indimenticabile: Stalin…

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