La sinagoga degli iconoclasti [J. R. Wilcock, Adelphi]

lasinagogadegliiconoclasti_flaneri.com_-283x442Scrittore argentino naturalizzato italiano, Juan Rodolfo Wilcock ha trascorso parte della sua vita a raccogliere e selezionare le notizie più originali che riusciva a trovare nella rassegna stampa quotidiana.

Da qui il libro Fatti inquietanti e la figura di Roberto nel film Cosa piove dal cielo (Un cuento chino, 2011). Ma anche lo spunto per La sinagoga degli iconoclasti, una galleria di personaggi immaginari che spiegherebbero la pazzia del mondo.
Capace inoltre di ispirare il libro di Roberto Bolaño, La letteratura nazista in America (sempre pubblicato da Adelphi)La galleria comprende filosofi, scienziati, etnologi, tutti ricordati per le loro teorie stravaganti.
Il libro è divertente ed appassionante, merita di essere letto con leggerezza sapendo che nella leggerezza molto spesso si nasconde una buona dose di serissima verità.

Al libro ha dedicato una bella recensione anche Pier Paolo Pasolini:

Riprendendo in mano La Sinagoga degli iconoclasti di J. Rodolfo Wilcock  , per scriverne – dopo averlo letto una dozzina di giorni fa – provo come un leggero senso di terrore. Ma come! L’avevo letto con tanto divertimento, addirittura, qualche volta, ridendo a voce alta, da solo, come un pazzerello. Adesso il mio sguardo scorre su queste pagine, riconosce questi nomi e questi cognomi, questi titoli di libri, queste date di edizioni: e un disagio sottile mi dà come un senso di nausea, una voglia di dimenticare.

Le città invisibili di Italo Calvino si concludono con questa frase: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

Ebbene, questi due modi di mettersi in rapporto con l’inferno per non soffrirne, non prevedono il caso di Wilcock. Egli non appartiene certo alla maggioranza per così dire silenziosa (in realtà essa parla il linguaggio dei motori, delle radioline e delle televisioni), che accetta l’inferno, ne fa parte e non lo riconosce più; ma non appartiene però neanche all’élite fortunata che cerca nell’inferno qualcosa che non è inferno.

Anzi, Wilcock sa, prima di ogni altra cosa, sa da sempre sa per sempre, che non c’è altro che l’inferno. Non si propone neanche nel modo più vago e generico (come Calvino) l’ipotesi che ci sia qualcosa al di fuori di esso. Non si sogna neanche lontanamente che ci possa essere un modo, anche illusorio, di non soffrirne o almeno di ignorarlo. E cos’è che distingue allora Wilcock dalla maggioranza silenziosa? È chiaro, benché terribile: egli accetta l’inferno, come la maggioranza silenziosa, ma al contrario della maggioranza silenziosa non ne fa parte, e perciò lo riconosce. Ecco delineata una condizione di «estraneamento». L’accettare un fatto per pura e semplice obiettività, e il non farne parte pur riconoscendolo, costringe Wilcock ad avere con questo fatto un rapporto tragico di estraneità: a cui non è consentita alcuna soluzione, nemmeno provvisoria o irrisoria. Quando la tragicità è ridotta ad essere così completamente priva di illusioni, non può che trasformarsi in comicità.

Visitatore-dannato dell’inferno, Wilcock, bruciando nel fuoco o dibattendosi nella pece bollente, osserva gli altri dannati: ma pur soffrendo – com’è naturale – in modo selvaggio, in questo suo osservarli li trova ridicoli. Il suo ridente sguardo cadaverico si posa soprattutto sui dannati in qualche modo simili a lui, appartenenti alla sua cerchia, alla sua specializzazione. La loro irresistibile comicità di dannati non spinge però Wilcock né a deriderli troppo né ad averne qualche pietà. Descrivendoli, egli concretizza semplicemente la propria condizione di «estraneità»: la concretizza in una forma di distacco linguistico che è infatti quasi filologico: e decisamente filologico lo è nella sua veste di «finzione» narrativa.

Ma è ora di spiegare in più povere parole di che si tratta. Wilcock ha finto di essere un enciclopedista, armato di una erudizione spaventevole, capace di tutto, e, nel tempo stesso, capace di semplificare tutto. Ecco, per dir meglio, Wilcock ha finto di essere un enciclopedista incaricato da un editore di scrivere un certo numero di «voci» per una enciclopedia divulgativa. Queste voci riguardano scienziati, inventori, utopisti, saggisti, filosofi. E Wilcock compila queste sue «voci» con tanto scrupolo, diligenza, abito professionale che, dico la verità, ad apertura di libro, ho creduto che si trattasse di nomi veri, di fatti realmente accaduti. La pagina dove si era posato il mio occhio, era la seguente: «Secondo Charles Carroll di Saint Louis, autore de Il negro è una bestia (The Negro a Beast, 1900) e Chi tentò Eva? (The Tempter of Eve, 1902), il negro fu creato da Dio insieme agli animali al solo scopo che Adamo e i suoi discendenti non mancassero di camerieri, lavapiatti, lustrascarpe, addetti alle latrine e fornitori di servizi simili nel Giardino dell’Eden. Come gli altri mammiferi, il negro manifesta una specie di mente, qualcosa tra il cane e la scimmia, ma è completamente privo di anima. Il serpente che tentò Eva era in realtà la cameriera africana della prima coppia umana. Caino, costretto dal padre e dalle circostanze a sposare sua sorella, rifuggì dall’incesto e preferì sposare una di queste scimmie o serve di pelle scura. Da questo ibrido matrimonio sono scaturite le varie razze della terra…»

Non è forse attendibile come teoria razzista del primo Novecento? Wilcock descrive poi teorici e utopisti ancora più spaventosi, forniti di nomi mitteleuropei, anglosassoni, latino-americani, assolutamente assurdi, quasi da avanspettacolo, e inventori di congegni, macchinari, sistemi filosofici ancora più assurdi: eppure nessuna di quelle figure e nessuna di quelle invenzioni è più ridicola e stronza di come sarebbe stata se fosse stata reale. A libro chiuso, abbiamo letto una vera antologia di biografie di uomini di pensiero.

Cos’è che dà a questo libro un così forte sentimento di realtà? È, soprattutto, il surrealismo: è infatti sul surrealismo che Wilcock investe la vena comica con cui rende accettabile la patetica malvagità che gli fa identificare tutto il mondo con l’inferno. Egli approfitta insomma delle teorie dei suoi eroi per farne dei pezzi di magistrale letteratura onirica: cosicché tali teorie non sono più delle cose semplicemente pazzesche, da genialoidi destinati al manicomio, ma, diventando «visioni», attraverso lo stile del loro descrittore, recuperano una realtà poetica che si proietta su loro, restituendole all’universalità che avevano perduto nella miseria della pazzia. Diventano – se vogliamo – delle metafore perfette di analoghe scoperte, invenzioni, ideologie reali. Naturalmente – come un quadro surrealista è dipinto con la pennellatina pre-impressionistica, che, con cura accademica, ambisce alla fedele riproduzione del modello – così anche la scrittura di Wilcock è una scrittura perfettamente normale, piana, convincente. E non solo per scherzo (ché in tal caso non ci occuperemmo del libro), ma con il rigore di una scelta stilistica intrasgredibile. «… uno stile piano e impersonale è concesso a pochi, e non certo a uno scrittore di successo», scrive Wilcock nell’unica riflessione diretta sul proprio scrivere nella Sinagoga.

Su questo piano di riflessione metalinguistica, ciò che colpisce di più il lettore leggendo il libro di Wilcock, fatto tutto di una serie ci brevi pezzi, intitolati ognuno (come appunto in un’enciclopedia) col nome proprio del pensatore, è la curiosità con cui lo si divora, quasi si trattasse di un libro giallo. La «suspense» che mantiene così morbosamente attenti, è appunto di genere metalinguistico, e consiste nella domanda: «Che cosa inventerà nella prossima “voce” l’autore?» E l’autore, nel nostro caso non tradisce mai, neanche nelle attese più ingenue (ognuna di queste sue biografie potrebbe essere un magnifico film comico).

È una coincidenza certo casuale: ma insieme a quello di Wilcock sono usciti almeno altri tre libri che si divorano per l’interesse causato dalla stessa domanda: «Cosa inventerà l’autore nel prossimo pezzo?»

Si tratta prima di tutto della… Storia Augusta, le biografie – scritte nel secolo IV d.C. – degli imperatori romani che si sono successi dal 117 al 284-85. Sono brevi romanzi, in cui la storia è completamente sognata. L’accumulazione dei fatti e dei dettagli – dovuta al taglio breve del racconto – accresce questo sentimento di sogno. Ho letto prima di tutto, in omaggio a Arbasino, la vita di Eliogabalo: possibile che al tempo di Costantino il «Basso Impero» apparisse già in tutto il suo gusto decadente, come appare a noi? Quei secoli che se ne vanno via a manciate, trascinando interi popoli e intere vite in men che non si dica amen… Quelle epoche storiche che hanno minor consistenza di un banchetto… Quegli assestamenti di popoli in cui una vita umana sembra sottratta alla legge del tempo, oppure regolata dalla legge del tempo che vale per le farfalle che vivono un solo giorno… Sono propenso ad abbracciare la teoria del Dessau (sembra un personaggio di Wilcock) che in Ueber die Zeit und Persönlichkeit der S.H.A. dimostra che la Storia Augusta è stata scritta da un’unica persona, così che i sei autori tradizionali (Elio Lampridio, Elio Sparziano ecc.) sarebbero stati inventati di sana pianta da quell’autore unico, rimasto anonimo (forse per estrema raffinatezza).

Il secondo libro è un classico, cioè Vite immaginarie di Marcel Schwob. Anche qui la domanda che tiene desta l’attenzione di «Vita» in «Vita» è la stessa. Ma una certa ordinata distribuzione cronologica, dall’antichità classica all’Ottocento rovina un po’ il piacere di trovarsi di fronte a possibilità imprevedibili. Meglio leggere questo libro non di seguito. Oppure andare diretti ai racconti più belli, gli ultimi, dalle storie dell’adorabile puttana Katherine la Merlettaia e dell’adorabile assassino Alain le Gentil in poi.

Anche qui la caratteristica è l’accumulazione dei casi – delle volte apparentemente minimi – dovuta alla concentrazione del racconto (una vita in due-tre pagine): il montaggio distrugge le regole del tempo, sostituendole con regole morali: una vita è tale non in quanto è una continuità ma in quanto è una serie di avvenimenti significativi, anche quando a evidenziarli sia una luce di sogno. Il tempo, annullato, si vendica però covando la sua assenza come una terribile nostalgia, un insostenibile senso di possibilità irrealizzate.

14 gennaio 1973

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