Gioventù senza Dio, di Ödön von Horváth

Mi piacciono le scoperte, se poi sono estive meglio ancora. Mi sono imbattuto in questo libro leggendone un altro di Ingo Schultze (la recensione sarà pubblicata su Mangialibri) ed ho sentito la necessità e curiosità di leggerlo quanto prima.
Parla di insegnanti, di genitori, di ragazzi allo sbando, di scuola, di pensiero unico, di rimorsi, di formazione plagiata e condizionata da cattivi maestri, di tempi che cambiano, cambiamento dei tempi: indubbiamente una lettura da fare.

(per comodità riporto la recensione di Giuseppe Circiello, trovata in rete e molto aderente all’idea che mi sono fatto io del libro di Horváth)

Ambientato nella Germania nazista degli anni ’30, Gioventù senza Dio, di Ödön von Horváth, è una lucida fotografia della dilagante decadenza morale di quei tempi bui. Attraverso la storia di un delitto, commesso durante un’esercitazione tra liceali, l’autore mette in risalto il baratro valoriale che separa la generazione della Hitlerjugend da quelle precedenti. Un abisso mortale che, però, si è aperto anche a causa della resa di chi si rendeva conto di cosa stesse accadendo in Germania e non si è opposto.

Von Horváth compone pagine agghiaccianti, nelle quali mette in mostra come anche il più comune buon senso possa essere ritenuto pericolosamente sovversivo, laddove “i criminali e pazzi” siano riusciti ad ottenere il potere e a plagiare e/o minacciare ampia parte della società.

Ciò che più fa rabbrividire, almeno nella prima parte del racconto, non è nemmeno tanto il razzismo e la volontà di dominio che dilaga in questi nuovi figli del Reich, no. Ciò che più angoscia è vedere come il professore di storia e geografia, che ci racconta tutta la vicenda, si renda ben conto che qualcosa vada fatto e che sarebbe un dovere morale cercare di salvare questa generazione. Eppure, non lo fa. Il comportamento di questo docente è sostanzialmente omissivo. Schiacciato da un sistema più grande di lui, si accontenta di evitare di dire e di fare le cose giuste, per poter arrivare un domani alla pensione e avere sostanzialmente una vita tranquilla (così come il preside e, probabilmente, tutto il corpo insegnanti). E questa credo sia un’efficace immagine di quanto in Germania sia effettivamente accaduto. La vigliaccheria e il tornaconto hanno messo a tacere la verità: tutti gli uomini meritano di vivere.

E la verità è anche il “Dio” che manca e che il protagonista narrante insegue disperatamente. Il professore si rende conto di quanto essa ad sia assente, in un paese che marcia pericolosamente verso la Seconda Guerra Mondiale. Così, decidendo di raccontare ciò che sa alle autorità, darà l’esempio e, questo, spingerà anche altri personaggi a dare un loro piccolo contributo per far sì che non venga condannata un’innocente.

Il buon esempio risveglia le coscienze ci suggerisce von Horváth. Ed è lì, nelle coscienze che Dio, qualunque cosa sia, si cela… Ma bisogna volerla ascoltare la nostra coscienza e bisogna avere la forza di agire di conseguenza. Ed è proprio questo che il totalitarismo combatte: l’individualità… le individualità che, sommate, portano al pluralismo sociale e politico. Volendo ridurre tutto – tutti – ad un meccanismo che alimenta un’ideologia omicida, il nazismo educa a perseguire valori criminali come l’annientamento dell’altro, per la mera soddisfazione di espandere e perpetuare se stesso, mentre tutto muore: come fa un cancro. E, in questo, trova nella popolazione vessata dalla crisi economica e valoriale, incattivita dalla miseria e dall’accrescersi delle differenze sociali, l’humus adatto per propagarsi.

Non è un caso che, alla fine, si scoprirà che l’alunno colpevole dell’omicidio del compagno sarà l’unico che, contro di questi, non aveva alcun movente. Come dirà Hannah Arendt quasi trenta anni dopo, il male non è mai radicale, ma è banale. Proprio come Hitler e i nazisti hanno voluto mettere alla prova la propria capacità di perpetrare un’atrocità dopo l’altra, senza pensare agli altri e riducendoli solo a “mezzi“, per arrivare a determinati scopi, così il ragazzino omicida di questo libro non ha voluto fare altro che un esperimento per accrescere il proprio ego, commettendo un delitto privo di senso.

E in questo racconto, in questa descrizione della Germania, von Horváth ha dimostrato di essere lungimirante. Questo breve romanzo è importante anche perché scritto durante gli anni di cui parla. Lo scrittore aveva capito. E con coraggio si è opposto alle (in)sensibilità dominanti nel mondo germanico degli anni trenta. Possiamo leggere il suo romanzo e ringraziarlo di aver denunciato razzismo, colonialismo, guerra e volontà di dominio.

Queste pagine dal sapore teatrale, semplice e asciutto (von Horváth è stato soprattutto un autore per il teatro), parlano al dio che è in noi, alla nostra coscienza. E sanno farci provare orrore verso quell’umanità con lo “sguardo da pesce“, freddo e inespressivo, che l’autore denuncia. Ma sanno anche commuoverci, con la loro richiesta di umanità e verità.

Questo è un romanzo “terribile“ (nel senso buono del termine). Perché dopo averlo letto si rimane con la consapevolezza che nessun personaggio è innocente. Sono tutti colpevoli per qualcosa, tutti un po’ mostri: il professore, il colpevole, la vittima (che si chiama N., probabilmente perché incarna tutti gli ideali del nazismo), il ragazzo e la ragazza accusati ingiustamente, i genitori di tutti. L’unico raggio di luce è stato appunto quel briciolo di giustizia che trovare il vero colpevole ha dato… E vale molto. Ma il giudizio su noi stessi e su ciò che avalliamo ogni volta che taciamo è impietoso. I timori di von Horváth poi si trasformarono in realtà. Per favore, facciamo sì che la storia non si ripeta!


Rispondi