1. 1. Agostino – Che cosa s’intende ottenere, secondo te, quando si parla?
Adeodato – Per quanto ora ho in mente, o insegnare o apprendere.
Ag. – M’è evidente il primo dei due casi, e son d’accordo. È chiaro che parlando s’intende insegnare. Ma apprendere come?
Ad. – E come, secondo te, se non dialogando?
Ag. – Ma anche allora, per quanto ne so io, s’intende soltanto insegnare. Ti chiedo appunto se dialoghi per un motivo diverso da quello d’insegnare il tuo pensiero all’altro dialogante.
Ad. – È vero.
Ag. – È evidente dunque per te che con la parola s’intende soltanto insegnare.
Ad. – No, non m’è del tutto evidente. Se infatti parlare non è altro che proferir parole, a mio avviso, anche quando si canta, si compie quell’atto. Ma poiché spesso si canta da soli, senza che sia presente qualcuno che apprenda, non penso che s’intende insegnare qualche cosa.
Ag. – Io invece penso che v’è un genere d’insegnamento per rievocazione, e importante certamente. Il fatto stesso lo dimostrerà durante questo nostro discorso. Ma se tu non ammetti che si apprende col rievocare e che non insegna anche chi stimola alla rievocazione, non ti faccio obiezioni. Stabilisco comunque fin d’ora due ragioni del linguaggio, o per insegnare o per stimolare alla rievocazione gli altri o noi stessi. Lo facciamo anche quando cantiamo; non ti pare?
Ad. – Non del tutto. È piuttosto raro che io canti per rievocare, ma soltanto per diletto estetico.
Ag. – Capisco il tuo pensiero. Ma non rifletti che ciò che nel canto dà diletto estetico è una misura ritmica del suono. Essa può essere aggiunta o sottratta alle parole; quindi altro è parlare ed altro è cantare. Si canta col flauto e la cetra, cantano gli uccelli ed anche noi talora moduliamo senza parole una sequenza musicale. E questo suono si può considerare canto, ma non discorso. Hai da obiettare?
Ad. – No, proprio nulla.
Testo ripreso da Agostinus