Iniziata durante la guerra dei Balcani e pubblicato nel 1994, quando le ferite dell’orrendo scontro fratricida sono ancora aperte e sanguinanti, la raccolta di racconti di Miljenko Jergović ci consegna un quadro ancora fresco delle mille sensazioni e delle mille situazioni che hanno restituito quella terra ad una normalità che non potrà mai essere più tale. E più che un quadro è un polittico, un diorama di personaggi che popolano una narrazione corale: nessuno intreccia la sua vita con quella degli altri, tutti però partecipano allo stesso romanzo.
Jergović fa sua quella tradizione bosniaca di non seppellire mai un morto a valle, ma sempre su un pendio: da lì infatti si possono incrociare all’orizzonte tracce delle storie sconosciute di un popolo che però, quando sono raccontate, ricostruiscono il senso intero di quel popolo. Basta la fortuna editoriale del testo – già tre edizioni italiane in 25 anni, una subito nel 1996 per la casa editrice Quodlibet e quindi una per Vanni Scheiwiller nel 2005 – per capire quanto sia umanamente e storicamente prezioso questo diario di guerra. Non a caso Paolo Rumiz, profondo conoscitore del mondo balcanico, ha trovato in Jergović un novello Ivo Andrić, scrittore triste e narratore della tragica epopea da cui prende forma la Bosnia Erzegovina. E in Jergović c’è l’amara tristezza di chi deve raccontare la fine di quel mondo polifonico, senza arrendersi però alla rassegnazione dei vinti dalla vita. Il libro si apre con un bel saggio di Claudio Magris, che fornisce di Jergović la definizione di “scrittore epico”, e si chiude con una postfazione di Ljiliana Avirović, che ha curato la traduzione del testo.
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