Stoccolma, 1912. Durante i giochi olimpici, la nazionale Russa è sconfitta 16-0 dalla Germania (ben 10 segnature sono di Gottfried Fuchs): potrebbe sembrare una semplice partita di calcio, ma la tragicomica sconfitta della nazionale russa è l’emblema dello sbando in cui versa la Russia zarista, molle, svogliata, disunita. Questa mancanza di carattere fa andare su tutte le furie lo squattrinato Vladímir Vladímirovič Majakóvskij che, appresa la notizia da un giornale in un bar, non può non vergognarsi del punto così basso nel quale versa il suo popolo e trova il colpevole: l’imperatore Nikolaj Aleksandrovič Romanov.
Nel suo girovagare fra i salotti letterari, da una bettola all’altra, seguito dal suo ‘mecenate’ David Burljuk, cerca di dare forma alle sue idee di progresso e di avanguardia, imbattendosi in opere quanto mai controverse, come Il maestro e l’allievo scritta da Velimir Chlebnikov, genio squilibrato che attraverso versi che si sono fatti numeri riesce a predire che il 1917 sarà l’anno fatale per un grande impero: o l’Inghilterra o la Russia. Di queste pulsioni non ha contezza lo zar Romanov, preoccupato soltanto di far fuori i Turchi e allargarsi nei Balcani: con il matrimonio la principessa Alice d’Assia si era assicurato l’appoggio della Germania, sarebbe stato un gioco da ragazzi. E se i soldati sono già in subbuglio, non è da meno la vecchia aristocrazia: ad Oxford Feliks Feliksovič Jusupov, fra un divertimento e l’altro, muove le fila di tutte le famiglie nobili impegnate ad ottenere dal sovrano ciò che loro desiderano e non ciò che vuole il Romanov. Per questo è sotto osservazione una figura singolare che da qualche tempo si aggira nelle stanze della corte imperiale, un mužik siberiano che ha già l’aura di un santone, Grigorij Efimovič Rasputin. Arrivato a San Pietroburgo e sistemato in una stanzetta, Griška frequenta assiduamente lo zar, dà consigli, prefigura scelte, infastidendo tutti quei nobili che si vedono scavalcati nelle gerarchie dell’imperatore fantoccio…