Le rose di Stalin, di Armando Torno [Marietti 1820, 2020]

Esiste una Russia da copertina, da prime pagine di giornali, una Russia che apprendiamo da lontano, che ci affascina e/o ci spaventa, andando anche oltre la cortina dei luoghi comuni e degli stereotipi che ci vengono propinati, anche attraverso i racconti fantasiosi che riceviamo indirettamente da chi quella Russia l’ha vista e l’ha vissuta.

Ma non è proprio tutto vero quello che ci viene detto: così si scopre che Mosca si paralizzò completamente il giorno in cui Glen Gould, nel 1957, arrivò per un concerto. Chi se lo sarebbe aspettato, considerando che il pianista era un nordamericano su territorio sovietico in tempo di Guerra Fredda e anche uno un po’ fuori dagli schemi. I primi arrivati, dopo qualche legittimo sospetto, furono rapiti da quel ragazzo e cominciarono un tam tam che portò al teatro centinaia di persone, anche di più per la sua replica qualche giorno dopo. Fra i tanti fu intravisto anche Boris Pasternak, fresco vincitore del Nobel per la letteratura. Perché i russi sono proprio così, diversi da come pensiamo che siano: Chruščëv non ha mai sbattuto la scarpa sul tavolo, Dostoevskij ha dormito a lungo su un baule e Stalin amava a tal punto il balletto da raggiungere tutte le sere la prima ballerina Olga Lepeshinskaya percorrendo il lungo corridoio segreto che unisce il Cremlino al Bolscioi. E tutte le volte portava un bel mazzo di rose alla bellissima Olga. Un popolo originale quello russo, del resto l’unico che ha pensato bene di istituire un centro per studiare i cervelli dei grandi patrioti e rivoluzionari, nella speranza di poterli clonare…

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