I sistemi educativi devono essere inclusivi o meritocratici?

Il nostro sistema educativo ha introdotto fin dal 2007 un modello per la valorizzazione dei successi scolastici, con la costituzione di un apposito albo delle eccellenze, prevedendo anche incentivi economici per una parte degli studenti più meritevoli (a prescindere dall’estrazione sociale).

Il nuovo Decreto Legge 79, sull’onda lunga di una vocazione mai sopita, fatta di tentativi per introdurre una gerarchizzazione all’interno del corpo docente, e articolata su un’idea di valorizzazione del merito, introduce dei veri propri premi economici, da conseguire attraverso percorsi di formazione professionale congiunti a prove selettive (l’incentivo, infatti, non sarà riconosciuto a tutti coloro che avranno partecipato ai corsi d’aggiornamento, bensì soltanto ai più “meritevoli”). Si parla in prospettiva anche di una valutazione dei dirigenti scolastici sulla base dell’impatto della loro gestione sui rendimenti degli studenti, misurati attraverso gli esiti delle prove Invalsi (il cosiddetto “effetto scuola”).

Anche l’Università, da oltre un quarto di secolo, è stata agganciata a un sistema di valutazione e riconoscimento di finanziamenti e carriere, misurati sulla base di una serie di parametri collegati alle pubblicazioni scientifiche e alla loro autorevolezza internazionale.

L’intero sistema dell’istruzione pubblica (quella privata molto meno, curiosamente, almeno in Italia) sta dunque introiettando una certa lettura della concezione liberale meritocratica, adottandola come valore di riferimento. La nostra Costituzione giustamente ci ricorda l’importanza di sostenere i “capaci e meritevoli”, anche se privi di mezzi, ed è su questo dispositivo che si è incardinata qualsiasi ipotesi di ascensore sociale, lasciandosi indietro (quanto meno in linea ipotetica) sistemi da “antico regime”. Ma è davvero questa la declinazione politico-culturale della meritocrazia che si sta affermando nella nostra società e nelle nostre organizzazioni educative? Oppure ci stiamo avvicinando pericolosamente alla deriva profetizzata molti decenni fa nell’ipotesi distopica di Michael Young? La questione sulla quale occorre riflettere, dunque, è se – e quanto – un approccio assiologico di questo tipo si addica a un sistema educativo inclusivo (aspirante a esser tale), o addirittura all’intera società. E scegliere una visione di società equivale a ragionare su quale tipo di filosofia normativa si intende valorizzare, quale visione di persona e di relazioni tra le persone.

Tendere alla propria “fioritura” equivale a cercare di vivere la propria vita virtuosamente. La fioritura può essere intesa in modo riduzionista se interpretata come uno stato di piacevolezza o di benessere, come conseguenza diretta di una sequenza o di alcune specifiche azioni. Andrebbe intesa invece in un modo più ampio come il modo migliore in cui dovrei e potrei vivere la mia vita, o il modo migliore, lo stile da imprimere e attraverso il quale ricalibrare il mio agire come una persona virtuosa. Come sottolinea MacIntyre in Animali razionali dipendenti, gli esseri umani hanno bisogno delle virtù, se consideriamo le virtù umane non come semplicemente strumentali all’efficacia basata sui ruoli: il resoconto delle virtù come standard interni alle pratiche fornisce solo una definizione parziale; completato dall’ordinamento di quelle inclinazioni umane a un bene generale, vissuto in comunità. Le virtù sono l’attuazione piena di tratti caratteriali che gli esseri umani sviluppano gradualmente e solo parzialmente attuano la loro piena fioritura, che avviene solo quando un tratto caratteriale si attualizza pienamente diventando una virtù. Tali tratti e tali virtù tuttavia non dovrebbero mai essere visti come puramente strumentali a una concezione esternalizzata di eudaimonia. La pratica delle virtù è preziosa in sé stessa e costitutiva della prosperità umana. Secondo MacIntyre lo standard primario cui applicare il giudizio è la possibilità di caratterizzare e valutare la persona in quanto agente virtuoso, persona che, attraverso la sua vita e azioni, incarna ciò che significa per gli esseri umani vivere bene in comunità. Ma è davvero in questo senso che la società meritocratica in cui viviamo sollecita i giovani a “fiorire” come soggetti in formazione, o gli adulti destinati a competere nei propri ambienti di ricerca e lavoro?

L’ultimo libro del filosofo Michael J. Sandel, intitolato La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti, ci aiuta a mettere in fila alcuni concetti-chiave, senz’altro importanti per una riflessione consapevole su alcuni passaggi trasformativi del nostro sistema di istruzione, dalla scuola all’università.

Il primo aspetto da sottolineare è che una società che aspira alla meritocrazia non è una società orientata verso l’eguaglianza, né l’equità, in senso stretto. La meritocrazia pretende semplicemente di attestare le differenze di posizione economico-sociali su un piano non ereditario né riferito a prerogative di casta, bensì a un “merito” personale, sia esso legato allo sforzo, al talento o a entrambi i fattori. Questo significa che un sistema meritocratico non nega l’esistenza di gruppi sociali privilegiati, ma ne giustifica l’esistenza sulla base di un costrutto morale, mantenendo pienamente in vita la possibilità di godere di diritti speciali – da parte di alcuni – a redditi elevati, a posizioni socialmente influenti, a livelli reputazionali gratificanti. Se prendiamo ad esempio la dinamica interna a un dipartimento universitario o a un istituto scolastico (per trasferire questo concetto in un campo d’interesse circoscritto), ma persino all’interno di un’aula di studenti, sarebbe a dire che il sistema attuale, non tollerando più equilibri baronali, nepotismi e privilegi feudali, né favoritismi speciali nei confronti di studenti appartenenti a famiglie importanti, aspirerebbe comunque a offrire posizioni gerarchicamente ed economicamente “valorizzate” ai ricercatori più “produttivi”, ai docenti che dimostrassero maggiore “dedizione” e agli studenti “eccellenti”. Ma la stratificazione interna resterebbe concepita come legittima, anzi, moralmente fondata.

L’argomento forte a sostegno dell’impianto meritocratico è dato dall’eguale accessibilità, per chiunque lavori sodo e rispetti le regole, ai gradi più alti della scala sociale. Sandel ha buon gioco nel dimostrare quanta ipocrisia ci sia dietro questa pretesa (basti pensare che i due terzi degli studenti ammessi ad Harvard o a Stanford appartengono al primo quintile della scala reddituale), ma è tuttavia indubbio che si tratta di un miglioramento – sul piano della mobilità sociale – rispetto alle società del passato, basate sostanzialmente su privilegi di ordine e casta.

Tuttavia il concetto di “merito” va analizzato meglio, e qui Sandel sollecita bene la nostra riflessione: quanto pesano, nei successi di ciascuno, i fattori naturali rispetto agli sforzi personali? Certamente alcune doti naturali aiutano molto nei vari campi di affermazione sociale: l’intelligenza, la bellezza, la prestanza fisica, ma anche il temperamento e le condizioni di salute (fisica e mentale), sono tutti facilitatori del successo, rispetto ai quali non abbiamo alcun merito soggettivo. Anche l’appartenenza a una famiglia facoltosa o scrupolosa non è un merito personale; così come l’essere nati in un tempo e/o in un luogo sfortunato non costituisce un fattore controllabile dal soggetto.

Buona parte degli studenti che noi premiamo per i loro meriti, in realtà sono stati già premiati dalla vita, perché sono ragazzi intelligenti (secondo le varie articolazioni del costrutto di intelligenza, naturalmente), talentuosi, spesso figli di genitori istruiti che li hanno puntualmente seguiti nei loro percorsi formativi. Certamente esiste anche la componente dello sforzo personale, della capacità di non dissipare i propri talenti e di rispettare il valore del duro lavoro, così come l’attitudine al sacrificio e il senso di responsabilità. Ma anche tali elementi, sostanzialmente caratteriali o legati all’educazione ricevuta, non hanno forse una componente disposizionale? Sappiamo bene che non tutti hanno le stesse capacità di concentrazione, attenzione e sacrificio: e se non si è ricevuta la giusta educazione per coltivare queste “qualità”, è forse un demerito personale?

Si vede bene allora come il “merito” sia in realtà un costrutto sociale, prevalentemente funzionale per chi già occupa pozioni apicali, finalizzato a garantire una giustificazione quasi moralistica della propria collocazione, e al tempo stesso offrire una buona argomentazione per la legittimità della gerarchia. In tal modo, il merito produce in chi ha successo un meccanismo di compiacimento personale, inducendo a scarsa umiltà e comprensione per gli altri. Ma assai pericoloso è il sentimento legato al “demerito”, che suggerisce una percezione di fallimento personale e scarsa autostima.

Quando celebriamo la premiazione di uno studente, contemporaneamente stiamo annunciando a un altro il suo insuccesso: sono due azioni simultanee.

Recentemente sono stati pubblicati alcuni interessanti testi sulla situazione complessiva della scuola in Italia, con particolare attenzione al tema della valutazione e della gratificazione dei meritevoli. Oltre al ben noto Il danno scolastico, si può fare riferimento al recente Perché (non) andare a scuola. Si tratta di un contributo che si basa sull’esperienza scolastica vista dal punto di vista di un docente che, come nel caso del lessico morale che MacIntyre ritiene smarrito nell’incipit del suo Dopo la Virtù, ritiene di aver smarrito il senso della valutazione e più in generale dello stare in classe. Perretti considera lo stare a scuola una continua tensione tra aspettative proprie e aspettative degli studenti, a volte limitate all’utilitaristico riscontro valutativo, a volte più feconde e intese come concernenti la propria fioritura come persona, al di là dell’esito accademico o professionale dello studio, superando e delegittimando un utilitarismo popolare che appare ormai purtroppo interiorizzato anche dagli studenti che sin da infanti risentono di una mimesis degli adulti e delle loro aspettative a volte molto invasive per la loro serenità. In un certo senso, il meccanismo di accumulazione gratificante dei propri successi, è appreso per emulazione quasi osmotica all’interno della società della prestazione. Ma si tratta di un modello sociale che delinea un azzardo psicologico.

Per paradosso, se essere poveri in una società meritocratica diventa preferibile rispetto a una società aristocratica da un punto di vista materiale, perché prevede la possibilità di ascesa, è psicologicamente molto più pericoloso. Per un ricco invece, la società meritocratica è psicologicamente più appagante, perché determina il costituirsi dell’idea di aver meritato – e non semplicemente ereditato – la posizione occupata. Analogamente nei sistemi educativi chi resta indietro si colpevolizza, mentre spesso non ha alcuna responsabilità rispetto ai propri insuccessi all’interno di un sistema di valutazione che è già tarato per valorizzare solo alcune tipologie di studenti, che puntualmente vengono premiati. Ma neanche i soggetti vincenti nel sistema meritocratico riescono poi davvero a essere gratificati dai propri successi, perché il livello di stress e attesa sociale su di loro è talmente pressante che alimenta fenomeni di dipendenze, disturbi psicologici e fenomeni suicidari, soprattutto tra i più giovani.

La meritocrazia, dunque, sembrerebbe essere una ricetta perfetta per la discordia sociale. Andrebbe quanto meno temperata. Sandel propone un esempio interessante. Una delle distorsioni del sistema americano (in parte anche del nostro) è il fenomeno del “comping”, cioè il lavoro sistematico di allenamento per il superamento di prove selettive al fine di essere ammessi al College o a molte altre attività che prevedono analoghi step di selezione. Nelle università più prestigiose, osserva Sandel, posto un minimo requisito di rendimento, si potrebbe procedere con un banale sorteggio per l’ammissione, e questo solleverebbe tanti giovani dal sentimento del fallimento oppure dalla boria del successo. Insomma: va bene sollecitare meccanismi di mobilità sociale, ma occorre individuare strumenti pratici e culturali per neutralizzarne gli effetti più pericolosi.

Il sistema sociale del diritto viene articolato con l’idea regolativa di garantire la realizzazione dei piani di vita degli esseri umani traducendo in norme giuridiche positive alcune stipulazioni che poggiano su un ideale perfezionistico di una vita buona, oppure possono di converso seguire anche un ideale anti-perfezionista nei confronti della manipolazione della vita. Oggi in particolare è possibile presentare diverse modalità per stabilire connessioni filosofiche tra idee di eccellenza e di perfezione mondana, teorie della virtù, paternalismo e possibilità di pensare e perseguire ideali di vita buona in contesti comunitari segnati dalla secolarizzazione, a partire dalle prospettive degli autori che hanno dato a questo complesso di problematiche il maggior rilievo del panorama filosofico mondiale degli ultimi anni, nella transizione tra XX e XXI secolo e in particolare Taylor, Habermas e Rawls. Si può quindi analizzare criticamente il pensiero di alcuni filosofi contemporanei la cui riflessione ha posto in questione l’idea di perfezione e le diverse declinazioni del perfezionismo nel contesto della filosofia (morale e politica) contemporanea e la loro realizzabilità nella società liberale contemporanea. È quindi oggi possibile pensare a partire dalla propria sensibilità filosofica le diverse possibilità per una società liberale di elaborare concetti condivisi di perfezione o di vita realizzata. Lo scopo che ci proponiamo è poter avviare un percorso di ricerca, finalizzato a una descrizione più ampia della normatività a partire da una nozione più ampia di persona, prendendo quindi posizione in merito alle recenti istanze provenienti dalle diverse versioni del perfezionismo e del paternalismo liberale, dai recenti sviluppi in tema di esemplarismo morale, per considerare criticamente i fecondi apporti provenienti dai disability studies, dal repubblicanesimo e dal comunitarismo nella loro capacità di criticare la giustificazione dell’esistente che la normatività liberale di fatto porta con sé.

Com’è stato più volte rilevato, in particolare da Nussbaum, è come se per un lungo periodo, che può avere come punti focali convenzionali l’illuminismo e lo storicismo, la maggior parte dei pensatori abbia messo da parte il pensiero emozionale, unitamente all’osservazione dello sviluppo del carattere e abbia quindi trascurato la centralità di una nozione così ricca e potente come quella antica di fioritura della persona, limitandosi all’analisi delle opportunità di analisi razionale del reale pratico. Recuperare il pensiero emozionale, unitamente al ripensamento delle virtù, può darci un quadro di pensiero più ampio e fecondo in cui pensare nozioni quali meritocrazia, successo (scolastico e e sociale), utilità della valutazione, cercando una terapia per i mali della scuola e dell’università evidenziati da Sandel e da alcuni altri autori.

Trasferire tout court il dispositivo concettuale della meritocrazia in un contesto educativo può stridere in qualche modo con un sistema che deve invece fondarsi sulla concordia, per essere realmente inclusivo. Meglio uscire dalla logica del “premio”, per consolidare quella del “diritto”. Meglio evitare – ove possibile – inutili gerarchizzazioni tra pari. Tutti i passaggi finora attivati per valorizzare studenti, docenti, dirigenti o istituti formativi, dovrebbero a questo punto cercare e trovare dei meccanismi diversi, per temperare gli effetti contro-educativi che potenzialmente l’ideale meritocratico porta con sé.

Scritto da Giovanni Cogliandro e Sandro Scognamiglio per MicroMega


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