Perché parliamo ancora di fascismo

In un articolo pubblicato su L’essenziale online (come tutte le buone riviste ha un costo che non può essere sostenuto visti i pochi lettori, il che ci interroga sulla qualità della cultura di massa, prima ancora che dei lettori), Francesco Filippi prova a spiegare come mai ancora oggi si parla di fascismo in maniera edulcorata, senza neanche scandalizzare troppo. Di seguito riporto alcuni stralci, ma invito alla lettura del testo originale.

Fascismo è un termine che viene da lontano, attraversa molti sentieri del ricordo in Italia e con la sua evoluzione accompagna il rapporto che il paese ha con la sua memoria. Come una gomma da masticare appiccicata sotto la suola delle scarpe, nell’ultimo secolo ha raccolto e inglobato molti significati. È stata di volta in volta sinonimo di violenza, rivoluzione, ordine, potere, degrado, dittatura, guerra, morte. E anche di nostalgia. Si è ritrovata saldata a prefissi che sono serviti ad attenuarne o appesantirne il significato: ecco che quindi si è parlato e si parla di vetero-, post-, para, a-, neofascismo. E ovviamente di antifascismo.

Con il passare del tempo si è assistito a uno sforzo per contestualizzarla, visto che si trascina dietro troppi accenti, troppe immagini e troppi fraintendimenti per essere richiusa in un unico recinto di senso. C’è chi sostiene che vada utilizzata per definire solo un determinato fenomeno storico che ruota attorno alla parabola politica e umana del suo fondatore, Benito Mussolini, e che pertanto tutto ciò che è successo dopo il 1945, anche se magari somiglia molto al fascismo storico, non si possa definire in questi termini.

E c’è chi al contrario prende atto della sua forza propulsiva, in grado di sopravvivere a Mussolini e alla dittatura, e di riempire di significati luoghi e ragioni della politica, della cultura e della società. Insomma, una parola atemporale o, se si preferisce, eterna. […]

Sono infatti sempre di più, e sempre meno pavidi o mimetizzati, quelli che in Italia si definiscono fascisti e che non chiedono il permesso di poter essere chiamati così da qualcun altro, appropriandosi della parola, dandole gambe e voce, rendendola viva e attuale. E, ancora una volta, a nulla valgono gli interventi di diversi esperti per ribadire che definire quello di oggi come fascismo potrebbe essere formalmente scorretto e poco preciso.

Come nella falsa leggenda sul calabrone, che secondo le leggi della fisica non dovrebbe volare ma che non conoscendole vola, l’Italia si trova di fronte a persone che per la storiografia ufficiale non potrebbero essere chiamati fascisti ma, siccome la storia non la conoscono, si definiscono lo stesso così.

E non solo lo rivendicano – senza tenere conto delle norme che fanno del fascismo un crimine e non un’opinione, a partire dalla XII disposizione transitoria e finale della costituzione – ma addirittura riprendono comportamenti, frasi, riti e azioni di quello che con una punta di speranza si vorrebbe tanto definire “fascismo storico”. […]

Ma comunque il fatto che in Germania alcuni discendenti di Hitler abbiano scelto di cambiare il proprio cognome per evitare di essere associati al führer mentre in Italia avere quello del duce fa curriculum, dovrebbe far riflettere sulla pervasività di un’immagine e di un immaginario che evidentemente sono riusciti a scavalcare senza problemi i rigori del tempo.

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