Dopo l’attacco al reddito di cittadinanza si è aperta la seconda fase. Le imprese non sono in grado, se vogliono stare sul mercato, di offrire lavori di migliore qualità e meglio remunerati perché l’economia italiana risente di un basso livello di produttività del lavoro.
Insomma sempre colpa di chi lavora, si potrebbe dire. Non è così, però.
Questa volta l’argomento ha una sua solidità e va fatto lo sforzo di approfondirlo. Perché è vero che la produttività nel nostro paese è bassa, che questo spiega i tassi di crescita bassi di un ventennio della nostra economia, ed è anche chiaro che questo handicap rende più difficile la crescita delle retribuzioni dei lavoratori. Quindi giusto non negare il problema ed affrontarlo con rigore.
Senza addentrarci in un approfondimento teorico sulla produttività dei fattori, lavoro e capitale, e sulla produttività totale che discende dalla loro combinazione, è necessario, però, che il confronto venga riportato su pochi ed elementari fattori che lo rendano possibile ed utile.
Semplificando molto, i principali fattori che spiegano la bassa produttività in Italia si possono riassumere intorno a tre questioni.
- La struttura dimensionale delle imprese italiane è caratterizzata da imprese più medio piccole che medio grandi. Ed è dimostrato che se confrontiamo grandi imprese italiane con grandi imprese straniere siamo ben competitivi e spesso tra i migliori. Quindi la più bassa produttività è in gran parte dovuta al fatto che abbiamo poche imprese grandi e molte piccole con scarsa disponibilità – per poca ricerca e pochi investimenti – a fare ricerca e produrre innovazione.
- Un secondo fattore è dovuto alla struttura settoriale della nostra economia. Poche imprese nei settori industriali e dei servizi avanzati dove ci sono i più elevati livelli di produttività dei fattori e molte nei campi dell’agricoltura, del commercio, dei servizi diffusi, dove, in Italia come altrove, la produttività è oggettivamente più bassa.
- Se a questi fattori aggiungiamo la distribuzione territoriale della produzione che vede molta concentrazione nel centro nord e solo pochi esempi diffusi nel resto del paese abbiamo una terza spiegazione. Perché è chiaro a tutti che nelle aree a forte intensità industriale esiste un fattore “ambientale” fatto di cultura industriale, sia degli imprenditori che della forza lavoro, e di infrastrutture che favoriscono diffusione di conoscenze, scambi, qualità ed efficienza della logistica che di per sé hanno un effetto moltiplicatore dei tassi di produttività.
Quindi, per fermarci per il momento qui, il problema della bassa produttività esiste ma andrebbe affrontato prendendo il toro per le corna ed affrontando i problemi elencati. È su questo livello alto della discussione che si dovrebbe sviluppare un confronto anche tra le principali rappresentanze del lavoro e delle imprese. Senza trucchi e senza inganni. A cominciare da patti sociali o comunque li si voglia chiamare che dietro belle parole nascondono visioni miopi come quella di concordare un sostanziale blocco dei salari per bloccare la spinta crescente ad un loro aumento.
Su questo terreno abbiamo già dato e sarebbe ora di prendere atto, tutti, di errori e limiti già scontati.
Mi riferisco agli accordi famosi del luglio 1993 sulla cosiddetta politica dei redditi: contenimento dei salari per frenare l’inflazione a due cifre e aggancio alla produttività che avrebbe, quindi, dovuto fare un balzo in avanti. Ma niente è stato fatto per affrontare i tre problemi citati all’inizio, la produttività è rimasta al palo ed i salari pure. E dopo trenta anni c’è chi ripropone le stesse ricette?
Quando si capirà che i salari non sono solo in reddito per chi lavora, ma hanno una funziona di leva nell’economia di un paese? Che solo se sono spinte da salari decenti le imprese sono sollecitate ad investire, innovare, fare la loro parte nell’aumento della produttività? Perché salari bassi e lavoro precario vanno a braccetto con la bassa produttività.
Sarebbe ora di prenderne atto, e di parlare di un nuovo patto per il futuro. Certo se si riconosce che quello del 1993 è stato illusorio perché il sindacato lo ha rispettato, ma la classe imprenditoriale prevalente è rimasta miope ed egoistica, se ne potrebbe pure riparlare.
Ma, lo abbiamo scritto su queste pagine, con una classe imprenditoriale che bussa sempre a cassa, proponendo solo nuovo deficit a proprio favore è molto difficile progettare e concordare un futuro.
Meglio allora, oggi, che sindacato e quel che resta a sinistra partano da un altro punto di vista. Ormai viviamo in un mondo di lavoro precario. E’ difficile rappresentarlo, organizzarlo, farlo diventare la leva per un rilancio.
Ma ci sono momenti della storia in cui bisogna proprio ripartire dagli ultimi. Sono tanti e saranno di più e senza di essi ci sono solo rischi di avventure. E’ ora di farlo.
Aldo Carra, su Il Manifesto
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