Quando a dirlo non siamo soltanto noi, ma addirittura il giornale di Confindustria …
Con due anni di scuola a singhiozzo tra lezioni da remoto e in aula, un gap formativo stimato tra il 30 e il 50% in matematica e nelle lingue; e un “mismatch” che, nonostante la crisi, interessa ancora un’assunzione su tre, addirittura una su due nelle materie tecnico-scientifiche, l’education entra con forza tra le priorità dell’agenda del premier incaricato, Mario Draghi.
A suonare la sveglia, del resto, è stato più volte l’ex presidente della Bce; da ultimo, a metà agosto, dal meeting di Rimini, quando, parlando di «debito buono», vi aveva subito inserito l’«investimento in capitale umano e nei giovani», ricordando, poi, come i paesi che «meglio hanno risposto all’incertezza e alla necessità di cambiamento» siano stati proprio quelli «che hanno assegnato un ruolo fondamentale (e risorse, ndr) all’educazione», con programmi pluriennali.
Parole, purtroppo, rimaste in larga parte inascoltate. A settembre i corsi di recupero sono stati un mezzo flop (in tanti istituti neppure si sono svolti); i fondi (circa 300 milioni) per il nuovo piano di recuperi formativi sono in stand-by, come tutto il nuovo decreto Ristori, a causa della crisi dell’esecutivo Conte 2; e le stesse bozze di piano italiano sul Recovery Fund, seppur individuano delle linee d’azione, hanno però postato poche risorse su progetti confusi e slegati tra loro.
Sui quattro capitoli “core”, orientamento e materie Stem, Its, apprendistato, dottorati industriali e laboratori innovativi, capaci di rilanciare la scuola italiana sono stati messi, in totale, circa 9 miliardi; ce ne vorrebbero più del doppio, oltre 20 (23, per l’esattezza, secondo imprese ed esperti).
Partiamo dalle materie Stem, dove l’Italia è fanalino di coda con una bassa quota di laureati tra i 25 e i 34 anni in queste discipline (24,6%) e un forte gap di genere (le donne sono poche). Qui a pesare, da sempre, è un orientamento quasi inesistente già a partire dalle scuole medie, unito a un disinteresse degli insegnanti verso le esigenze di aziende e territori (anche le iscrizioni alle superiori al prossimo anno, continuano a premiare i licei, e in genere, le scelte dei ragazzi, anche di istruzione terziaria, vanno verso titoli di studio con scarsi sblocchi occupazionali). E così il tasso di disoccupazione degli under25 sfiora il 30%.
Ecco allora che nel Recovery Plan ci si aspettava un’inversione di rotta, che peraltro (a parole) trova tutti d’accordo. E invece al capitolo «Competenze Stem e multilinguismo» ci sono 5,02 miliardi. Gli obiettivi non sono chiari. Ne servirebbero invece almeno 11,2 per realizzare “Steam space” (Science, Technology, Engineering, Arts, and Mathematics) in ciascuna delle 40mila scuole italiane (con priorità alle medie), dove fare orientamento, parlarsi con territori e imprese, formare i professori. Si arriva a 11,2 miliardi ipotizzando un costo di 280mila euro a “Steam space”.
La seconda priorità sono gli Its, gli istituti tecnici superiori, a oggi l’unico canale di formazione terziaria non accademica, e veri e propri passepartout per l’occupazione. Qui nelle bozze di Recovery si mettono 2,25 miliardi. Uno sforzo importante. Ma occorre arrivare ad almeno 6 miliardi per quasi equiparare il finanziamento ordinario che riceve l’università. Con questi fondi si dovrà dare attenzione anche agli edifici, sedi degli Its, oggi poco funzionali perché spesso ubicati nei locali degli istituti tecnici capofila.
La terza priorità è l’apprendistato, che deve tornare il canale di ingresso al lavoro dei giovani. Nelle bozze di Recovery Plan si stanziano 600 milioni. Anche qui bisogna però salire ad almeno 3 miliardi, se l’obiettivo è quello di creare un sistema stabile di incentivi per un percorso di filiera con un link stretto con le aziende, a cui riconoscere un solido ruolo educativo.
Quarta priorità sono i dottorati industriali e i laboratori per spin-off e brevetti, legati ai territori. Nelle bozze di Recovery Plan è stanziato 1,08 miliardi (capitolo «Sostegno all’innovazione per le pmi»). Ne servirebbero almeno tre, per far decollare la convenzione Università-Cnr-Confindustria sui dottorati industriali (che sta funzionando) e realizzare le passerrelle con gli Its. In sintesi, va costruita quella gamba «professionalizzante», che è realtà all’estero. Ancora no in Italia.
Fonte: Il Sole 24 ore