Del compianto Roberto Bolaño, lo scrittore Rodrigo Fresán ricorda la frenesia della scrittura sempre ai margini dell’abisso, sempre lanciata dall’ultima frontiera: quella voglia di raccontare l’utopia che solo nella letteratura può diventare reale.
Alan Pauls ne decanta la poetica dell’assenza: riuscire a raccontare e fare poesia parlando di presunti poeti particolarmente impegnati, politicamente impegnati, umanamente impegnati (I detective selvaggi) senza che di loro esista nemmeno un’opera. Si tratta di un’overdose prima ancora di un’intossicazione. Bolaño riesce attraverso i suoi racconti a creare una vera etnografia di personaggi inesistenti, di quadri e di possibili vite, nelle quali si è frammentato e suddiviso. L’amico e scrittore Enrique Vila-Matas, azzardando paragoni con Franz Kafka, Marguerite Duras e George Perec, ricorda l’attività fervida e ricca del Bolaño narratore che riesce a servirci le sue storie come un piatto forte della Cina distrutta, cioè con la stessa voracità che abbiamo di solito quando consumiamo un piatto originale, forte, serio e senza mezze tinte: bisogna conoscere e raccontare la tristezza della vita, ma saperla apprezzare ed amare anche con quella intensità così forte da farci dire che abbiamo davvero vissuto…
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