Operai pazzi, di Charles Krevigoskji [Ortica, 2022]

Cominciare a lavorare a quindici anni non è semplice, ma bisogna pur mangiare e pagare l’affitto: del resto se non si mangia si muore e se si muore non si conoscerà mai la fine di questo film che si chiama vita.

Il lavoro dovrebbe nobilitare l’uomo: non è così quando si devono trasportare sacchi di cemento, martelli pneumatici, smerigliatrici su e giù per seicento metri di scale ripide di una funicolare in costruzione. Mentre a casa i debiti aumentano, sul posto di lavoro potrebbe anche essere tutto più sopportabile se non ci fosse la voce insultante di quell’odioso capocantiere che continua a ingiuriarlo, a percuoterlo, a strigliarlo. Né serve guardarsi intorno se i punti di riferimento sono Bill, uno stakanovista che lavora anche di domenica -e non è normale! quasi quanto non lo è spezzarsi la schiena tutti i giorni per più di otto ore al giorno, oppure Louis, che continua a raccontargli le tristezze di una vita familiare dominata da un padre-padrone sfaticato ma volenteroso con la cinghia. Bisogna solo tapparsi le orecchie e continuare a lavorare, fino all’ultimo minuto di ogni sacrosanta giornata. E poi della settimana, dei mesi, di ogni maledetto anno. Ci sono poi opportunità che si possono cogliere al volo, come un lavoro lautamente ricompensato: peccato che si tratti di un lavoro “sporco”, o meglio che sporca il mondo, smaltimenti abusivi. E il padrone è talmente contento del risultato ottenuto che ti offre un posto fisso, quello che ti fa dimenticare di dover lottare tutti i giorni con l’ansia della fame o dell’affitto. Un posto fisso? No, grazie. Meglio un lavoro precario saltuario, che una vita da schiavi nella routine quotidiana di cantieri disumanizzanti…

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