La psicologia del giocatore di scacchi, di Reuben Fine [Adelphi 1976]

Narcisismo, egocentrismo, organizzazione, cattiveria ed aggressività sono le doti innate degli “eroi” degli scacchi, quelli che si realizzano soltanto intorno e dentro una scacchiera. Il primo fra tutti è stato Howard Staunton, classe cristallina, ma anche un talento innato per emergere in ogni campo avesse deciso di cimentarsi.

Non a caso smette di giocare a scacchi quando, 1851, è sconfitto nel torneo di Londra, da lui stesso organizzato. A sconfiggerlo fu uno spirito completamente opposto a quello di Staunton, Adolf Anderssen, mite insegnante tedesco che, a causa del suo lavoro, dovette rinunciare spesso a tornei internazionali di grande prestigio. Ma pochi anni prima Staunton aveva incrociato, sebbene mai sulla scacchiera, un giovane prodigio, Paul Morphy, che successivamente spopolò a Londra nel 1853 e poi decise di ritirarsi perché nessuno accettava più le sue sfide. Giovanissimo Morphy morì vittima delle sue psicosi e soprattutto del suo talento. Ma il ‘900 è stato segnato da due eminenti personalità che offuscarono due altrettanto grandi, ma miti, scacchisti: Lasker e Capablanca nulla possono in quanto a carisma rispetto a Alexader Alechin e Bobby Fischer. Tanto indolenti e passivi i primi, così sanguigni e imprevedibili i secondi, accecati dalla furia scacchistica e per nulla interessati a quello che avveniva fuori dalle 64 caselle. Per loro importava soltanto imporsi, e nel modo più violento possibile. Perché alla fine non è importante vincere, ma come si vince: possibilmente umiliando l’avversario, mettendo alle corde il suo re, annientandolo fisicamente e psicologicamente. Un mondo crudele, dominato da personaggi che si nutrono di quella scientifica crudeltà…

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