La pedagogia del lavoro di Giuseppe Valditara (MIM)

Benché non ci si finisca mai di stupire e possiamo aspettarci un tale atteggiamento da “un governo del fare” come quello descritto da Giorgia Meloni nel suo discorso di insediamento (“non disturbiamo chi vuole fare“) , a leggere l’articolo comparso su Libero lo scorso 12 novembre, con intervento del ministro Giuseppe Valditara, si accappona la pelle …

Il neoministro Giuseppe Valditara snocciala alcuni concetti che ritengo opportuno riportare e condividere estrapolandolo dal testo generale e provando a fare una sintesi interpretativa:
1 – “il perno attraverso cui si costruisce una società che ha un sistema imprenditoriale forte, che dà lavoro” è l’Istruzione Tecnica Superiore (ITS);
2- “dobbiamo anche considerare l’educazione al lavoro come qualcosa di fondamentale, che deve essere appresa sin dalle elementari. Abituare il ragazzo alla responsabilità e alla bellezza del lavoro. Coniugare formazione con il lavoro è un obiettivo e una strategia che ispirerà il nostro ministero.”
3- gli insegnanti si configurano come “consiglieri delle famiglie”
4- il lavoro “è un mezzo per la formazione della persona”
5- “scriverò a breve a chi ha figli in terza media indicando i dati che devono conoscere per poter fare scelte consapevoli, per non bruciare possibilità di successo lavorativo dei figli. Darò loro informazioni concrete sui fabbisogni del territorio in cui vivono, sulle prospettive occuapzionali e retributive che ogni indirizzo scolastico offre”

Sintesi interpretativa mia: partendo dal fatto che gli ITS non sono ancora completamente decollati, perché i dati degli iscritti (28.000 circa) sono ancora bassi, partendo dal fatto che in Italia c’è grande richiesta di personale qualificato, la Scuola, fin dall’inizio, dal segmento della Scuola Primaria, deve indirizzare gli alunni verso scelte conseguenti. Dunque orientare ed indirizzare, fin dalla Primaria, ad un’idea pedagogica del lavoro come modello di formazione della persona.

Indubbiamente non passa sotto silenzio l’idea pedagogica di fondo: formare dei lavoratori qualificati per il settore produttivo e non dei cittadini.
Sicuramente le parole e le idee si commentano da sole, ma vanno apertamente condannati alcuni pregiudizi ideologici:
la responsabilità della persona passa attraverso la responsabilizzazione dei lavoratori e, immagino, viceversa. Quindi abituarsi all’idea di diventare lavoratori significa acquisire responsabilità?
la scuola, di conseguenza, ha il compito di orientare al lavoro, non all’istruzione e formazione dei cittadini, ovvero riempire le caselle vuote del mondo del lavoro.

Ma c’è a mio avviso di peggio, e riguarda il metodo. Il neoministro del Ministero dell’Istruzione e del Merito (!) intede proseguire la sua modalità propagandistica e contattare direttamente le famiglie relegando ad un ruolo secondario quello dei docenti (ora “consiglieri” ora “tutor” [questo termine è retaggio, naufragato, della riforma Moratti, ispirata da Giuseppe Bertagna, ispiratore del libro di Valditara –È l’Italia che vogliamo, Piemme 2022- e da poco rientrato nel giro ministeriale nel novero dei quattro consiglieri individuati dal ministro stesso]).

E la libertà di insegnamento? E la libertà del Collegio Docenti? Sarà interessante leggere il decreto in drammatica elaborazione.

Su un passaggio sono d’accordo: l’istruzione tecnico-professionale non è un’istruzione di serie B, ma per non esserlo, e qui mi distinguo dal ragionamento del ministro, deve contenere le stesse finalità e gli stessi obiettivi dell’istruzione primaria, della secondaria di primo grado e liceale, che è quella di formare competenze per cittadini critici, capaci di pensare e assumere i termini delle problematiche in modo autonomo. Qui si dice, ma valuteremo poi il testo del decreto oramai più volte annunciato, il contrario: alcuni studenti diventeranno cittadini pensanti, altri lavoratori professionalmente adeguati ad essere immessi nel mondo del lavoro. La distinzione sarà fatta durante il percorso scolastico.
Non penso che sia questo l’ascensore sociale di cui si parla, perché l’obiettivo di fondo è avere lavoratori iper-professionalizzati, non formati.
Quindi si chiede alla Scuola di fare quello che le imprese non sono in grado di fare, cioè formare i lavoratori.
Qui c’è il nodo: la Scuola forma cittadini, le imprese formano i lavoratori. Dare alla Scuola quest’ultimo compito significa produrre un progetto pedagogico mortificante l’aspetto civico. L’impatto sociale sarebbe terrificante.


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