Il gioco degli dèi [Einaudi, 2019]

Paolo Maurensig è oramai specializzato in chess stories tanto che, dopo La variante di Lüneburg(Adelphi 1993), ha dedicato già due romanzi a grandi scacchisti: al prodigio americano Paul Morphy (L’arcangelo degli scacchi. Vita segreta di Paul Morphy, Mondadori 2013) e al genio controverso Alexandre Alekhine (Teoria delle ombre, Adelphi 2015), raccontato negli ultimi suoi giorni di vita in esilio ad Estoril.

Maurensig si immagina di avere raccolto la storia di Malik Sultan Khan dai taccuini di Norman La Motta, corrispondente dal Punjab del “Washington Post” alla vigilia del conflitto fra India e Pakistan: in servizio per il suo giornale vicino a Mittha Tawana, La Motta ha preso un’auto per lasciare l’hotel di Delhi ed incontrare il suo mito giovanile, Mir Sultan Khan. Ne nasce allora un’intervista, anche se non tutti i fatti raccontati corrispondono al vero, come testimoniano alcune biografie del giocatore indiano. Ciononostante non importa sapere qual è il confine col reale: quello che conta è la storia, raccontata in prima persona da Malik al suo intervistatore, per questo particolarmente intima, evocativa e partecipata. Maurensig riesce a restituirci il contorno e l’anima in una stessa pagina, mescolando il disegno d’insieme con la percezione del soggetto. Scrittura agile, scorrevole, piacevole. Ci sono però almeno due punti deboli: la cornice narrativa definita dall’espediente dei taccuini di Norman La Motta, totalmente inutile ai fini dell’inquadramento del personaggio di Sultan Khan, e le poco convincenti digressioni sulla filosofia orientale, sull’idea che Malik sia stato un preveggente più che un maestro di scacchi, che non abbia avuto talento ma soltanto il dono di essere stato ispirato dalle divinità orientali: “Essere supportati dagli dèi non è poi quella gran cosa che tutti credono; non è un merito muoversi appesi alle loro fila, diventare una loro pedina. È appena poco più di ciò che fa un servo nell’obbedire ai desideri e ai comandi del proprio padrone”. Su questa etichetta dell’idiot savant (in molti dicono che Malik fosse quasi un analfabeta), che neppure Maurensig riesce -inconsciamente – a togliergli di dosso, sull’essere pedina del caso, del karma, di una divinità, sull’inutilità delle cose umane, poggia l’intera architettura del romanzo biografico del più grande giocatore di scacchi indiano della prima metà del secolo. Una storia che vale la pena leggere e conoscere.

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